Attenti al lupo: Perché scegliamo chi ci domina
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Attenti al lupo: Perché scegliamo chi ci domina

Il lupo al comando

Viviamo in un'epoca che premia la velocità, la visibilità e la determinazione. I leader che occupano le posizioni più alte, siano essi politici, imprenditori, manager o influencer, sembrano avere un codice genetico condiviso: ambizione feroce, assertività estrema, narcisismo ben confezionato.

Anche laddove le culture cambiano, le lingue si differenziano e le strutture politiche variano, il modello dominante si ripete. Cambiano le sfumature, ma il profilo si riconosce.
 

Nella Politica

Basta guardare i principali leader politici degli ultimi vent’anni:

  • Donald Trump ha costruito la sua leadership su uno stile bulldozer, basato sul conflitto, sull’“io contro tutti”.

  • Vladimir Putin incarna il potere freddo, granitico, che non ammette contraddittorio né debolezze.

  • Giorgia Meloni, in Italia, si è affermata usando un tono spesso bellicoso, marcando continuamente distanza tra “noi” e “loro”.

  • Anche figure meno autoritarie, come Emmanuel Macron, mostrano tratti di decisionismo verticale, con poca tolleranza verso la mediazione.

Ciò che accomuna queste figure non è tanto l’ideologia, ma il registro comunicativo:

  • tono deciso,

  • immagine compatta,

  • nessun dubbio mostrato in pubblico,

  • predisposizione al comando,

  • disprezzo per i compromessi visibili.

L’elettorato sembra preferire chi “ci mette la faccia” in modo aggressivo, chi divide per controllare, chi mostra sicurezza anche quando la realtà richiederebbe prudenza e complessità.
 

Nelle Aziende

Il discorso non cambia se ci spostiamo nel mondo aziendale.

  • I CEO delle big tech, come Elon Musk o Jeff Bezos, sono celebrati come visionari inflessibili, spesso durissimi nei rapporti umani.

    • Musk licenzia via tweet, gestisce il personale con freddezza ingegneristica, promuove una cultura della performance spietata.

    • Bezos è noto per aver creato un ecosistema dove l’efficienza vince su ogni forma di empatia.

  • Anche in realtà più piccole, nei team, nelle agenzie, nei consigli di amministrazione, i leader che “funzionano” spesso sono quelli che alzano la voce, che decidono senza consultare, che semplificano i problemi con piglio risolutivo.

Il manager empatico, quello che si prende il tempo per ascoltare e mediare, è spesso percepito come un freno alla produttività. In molte aziende non viene premiato chi costruisce relazioni sane, ma chi dimostra di saper imporre ritmi e decisioni senza esitazioni. Così, paradossalmente, a guidare intere organizzazioni arrivano spesso persone che, sul piano umano, risultano profondamente inadeguate: incapaci di gestire le emozioni proprie e altrui, talvolta persino con tratti disturbanti di manipolazione o insensibilità. La cultura aziendale moderna, in più di un caso, sembra incoraggiare figure di questo tipo: leader che sacrificano ogni forma di empatia sull’altare della performance.

Il cinema ha colto bene questo fenomeno. Il diavolo veste Prada, per quanto romanzato, offre un ritratto riconoscibile della spietatezza che caratterizza molti dirigenti contemporanei. La protagonista, Miranda Priestly, non è un mostro inventato per intrattenere, ma un simbolo di un modello reale: quello del capo che costruisce la propria autorità sulla paura, sull’umiliazione e sulla distanza emotiva. Un modello che continua ad essere percepito come efficace, nonostante lasci dietro di sé ambienti di lavoro tossici, logoramento psicologico e una totale assenza di senso comunitario.

 

Nei social

Se allarghiamo lo sguardo a chi oggi ha in mano le leve del discorso pubblico, ci accorgiamo che la dinamica non cambia. Pensiamo agli influencer e ai content creator, figure che un tempo sarebbero state considerate marginali o puramente intrattenitive, ma che oggi di fatto producono cultura. Anche se spesso lo si dice con una certa ironia o con un senso di superiorità (“sono solo quelli che fanno i balletti su TikTok”) la realtà è ben diversa: sono loro a determinare i linguaggi, i codici, i trend, le idee che si diffondono con più rapidità nella società contemporanea. E questo vale non solo per la moda o lo stile di vita, ma anche per la politica, la sensibilità sociale, il modo in cui parliamo e percepiamo concetti come successo, inclusione, genere, persino giustizia.

Anche in questo ambito, il modello dominante è fortemente orientato all’assertività, alla polarizzazione, alla provocazione consapevole. I contenuti che premiano sono quelli che tagliano netto, che si schierano, che dividono. A funzionare meglio sono le opinioni espresse con tono perentorio, le frasi che non lasciano spazio al dialogo, le accuse lanciate senza mediazioni. Non conta tanto se quello che viene detto è vero, ma se riesce a generare attenzione

 

Allora la domanda è inevitabile:

Com’è possibile che questo stile di governo arrogante, irrispettoso nei confronti della dignità umana, fondato sulla cattiveria sia così diffuso e, anzi, così premiato?

Perché ci sentiamo attratti proprio da chi ci sovrasta?
Perché ci fidiamo di chi non ha esitazioni?
Perché pensiamo che solo chi è aggressivo possa proteggerci?

L’evoluzione sociale e la paura

Il fatto che i leader più apprezzati oggi condividano tratti aggressivi, autoritari, spesso spietati, non può essere ridotto a una moda passeggera o a un difetto del nostro tempo.
Si tratta piuttosto di una dinamica radicata profondamente nella nostra storia di specie. Per comprenderla, è necessario fare un passo indietro, non di decenni o secoli, ma di millenni.
 

Dalla savana al potere globale: la minaccia è cambiata

Per milioni di anni, l’essere umano è stato solo una creatura tra le altre, costantemente esposto ai pericoli: predatori, fame, intemperie, malattie. La paura era concreta, esterna, visibile.

Ma da quando abbiamo inventato l’agricoltura, la scrittura, le città, e poi imperi e sistemi economici complessi, non abbiamo più avuto nemici naturali all’altezza. Abbiamo ucciso o addomesticato ogni animale pericoloso. Ci siamo staccati dalla catena alimentare. Siamo diventati la specie dominante sul pianeta.

Eppure la paura non è sparita. Ha solo cambiato bersaglio.

L’unico vero pericolo per l’uomo, oggi, è diventato… l’uomo stesso.

È da qui che nasce la necessità di cercare protezione dentro la nostra stessa specie.

Ma da chi possiamo sentirci protetti… quando sono i nostri simili a farci paura?

 

Un cervello che reagisce, non che riflette

Il nostro sistema nervoso si è evoluto per decidere in fretta, per reagire al pericolo, non per contemplare la complessità.

  • Preferisce chi offre risposte semplici a chi solleva dubbi.

  • Si fida di chi mostra sicurezza più che di chi cerca comprensione.

  • E nel dubbio, si affida a chi comanda.

Oggi, anche se il mondo è cambiato, la nostra mente profonda è ancora strutturata per scegliere il più forte del branco.

Così accade che, in tempi incerti, scegliamo leader duri, autoritari, spietati.
Non perché siano i migliori, ma perché ci sembrano gli unici capaci di difenderci dagli altri uomini.

In pochi millenni, abbiamo costruito grattacieli, Internet, missioni spaziali.
Ma la nostra psicologia non si è evoluta alla stessa velocità.
Continuiamo a ragionare con meccanismi tribali.
E quando la società si fa instabile, quando arrivano le crisi economiche, le pandemie, le guerre, etc... il nostro istinto è tornare lì: al capobranco.

 

Ecco perché vediamo leader emergere non per quanto uniscono, ma per quanto dividono.
Non per quanto ascoltano, ma per quanto impongono.

 

La paura ci porta a scegliere chi ci comanda

La verità è che ogni volta che sentiamo il mondo come un luogo minaccioso, siamo portati ad affidare il comando a chi sa dominare — e non a chi sa connettere.

Succede:

  • Nella politica, con chi promette muri e battaglie.

  • Nell’impresa, con chi semplifica tutto in “performance e obiettivi”.

  • Nelle relazioni, con chi impone la propria visione e non lascia spazio all’altro.

La paura genera bisogno di controllo.
E il controllo cerca un volto forte anche se quel volto non ha a cuore il bene collettivo.

 

Ma se proprio l’uomo è il pericolo…

…non è paradossale che ci affidiamo a chi disprezza gli altri uomini?

Non è una soluzione: è un cortocircuito.
Una spirale che ci porta sempre più lontano da ciò che siamo diventati: una specie capace di empatia, di collaborazione, di linguaggio, di cultura.

E allora forse è il momento di chiederci:
davvero vogliamo continuare a scegliere capi che ci proteggono dagli altri invece che unirci agli altri per proteggere ciò che conta?

E se fosse arrivato il momento di cambiare sguardo?

Se i leader che dominano oggi condividono tratti di durezza, se la nostra storia evolutiva ci ha resi inclini ad affidarci a figure autoritarie nei momenti di incertezza, e se le piattaforme digitali alimentano questa tendenza sfruttando i nostri automatismi emotivi… allora la domanda inevitabile è:
esiste una via d’uscita? Possiamo immaginare un modello diverso di guida, di influenza, di autorevolezza?

Forse sì. Ma non può essere una semplice inversione di marcia. Serve un cambiamento di sguardo, lento, consapevole, ostinato.
Serve riconoscere che non tutto ciò che “funziona” nel breve periodo è ciò che ci fa bene nel lungo.
Serve cominciare a dare valore a chi sa costruire, non solo decidere.
A chi sa tenere insieme differenze, non cancellarle.
A chi crea spazi di ascolto, confronto, reciprocità.
A chi non si impone, ma si mette al servizio.

Un buon leader, oggi, non è chi comanda meglio. È chi sa creare contesti in cui le persone fioriscono. È chi non ha bisogno di mostrare forza, perché ha imparato a riconoscere e a custodire la fragilità, propria e altrui.
È chi sa essere autorevole senza essere autoritario.
È chi ha il coraggio di tenere insieme la complessità, anche quando è più faticoso, anche quando non conviene subito.

In questo senso, le virtù considerate “deboli” (l’empatia, la pazienza, la capacità di fare rete, di rimanere in ascolto anche quando è scomodo, etc etc) sono forse le più rivoluzionarie oggi disponibili. Non fanno notizia, non scalano l’algoritmo, ma creano senso, stabilità, fiducia. E dove c’è fiducia, può crescere tutto il resto.

Non è un’utopia. Esistono già leader, in politica come nell’impresa, nella scuola, nel terzo settore, nella cultura, che praticano ogni giorno un’autorità diversa. Non sempre hanno visibilità. Spesso faticano a farsi spazio. Ma ci sono. E andrebbero cercati, sostenuti, raccontati.

Per farlo, serve anche che ciascuno di noi riveda le proprie aspettative verso chi guida, e soprattutto verso se stesso.
Il cambiamento comincia nei gesti piccoli: nel modo in cui ascoltiamo, nel modo in cui parliamo, nel modo in cui trattiamo il dissenso, nel modo in cui esercitiamo la nostra piccola dose quotidiana di influenza.

In un’epoca che ci invita continuamente a competere, scegliere di coltivare connessioni umane può diventare un atto politico.
Un nuovo inizio è possibile.

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